Spesso mi capita di incontrare atleti che si rivolgono alla terapia nel tentativo di capire e risolvere problematiche psicologiche che in qualche modo limitano ed ostacolano il loro rendimento sportivo.
Molto spesso l’ansia che precede una gara, Ia paura di vincere, il senso di inadeguatezza dì fronte alla competizione sportiva, la scarsa fiducia in se stessi hanno origini profonde e di fronte all’ostacolo che l’attività fisica impone si generano nell’atleta vere e proprie somatizzazioni (come ulcere, vertigini, attacchi di panico) che possono anche costringere l’atleta ad interrompere tale attività.
Risalire attraverso l’analisi all’origine dei conflitto restituisce, all’atleta la possibilità di migliorare le proprie «performance» e all’uomo la possibIità di vivere meglio recuperando quelle energie interne bloccate e/o rifiutate dimostrando corne psicologia e sport, uomo e atleta siano inscindibilmente uniti.
Francesco mi telefonò sei anni fa.
Un collega, un medico sportivo, mi aveva anticipato la telefonata. «Sono solo problemi di testa» aveva dichiarato. Conosceva Francesco da sempre, lo considerava un valido atleta, ma non si spiegava il comportamento sportivo del ragazzo. Ogni sport veniva praticato dal giovane con un entusiasmo iniziale senza pari, ma poi accantonato a causa di «incidenti» apparentemente casuali dopo i quali era spesso necessaria una pesante riabilitazione. Nello sci, dopo aver superato difficili selezioni e vinto numerose gare, si bloccò per alcuni mesi a causa di una frattura multipla alla gamba destra. Non gareggiò più e si dedicò al motocross.
Durante un «rally» uscì dal percorso e riportò una brutta frattura al braccio destro. Lo stesso accadde nel tennis: ambizioso, perfezionista, competitivo si buttava nello sport con entusiasmo fino al raggiungimento di risultati discreti, ma mai centrando poi i traguardi che le sue potenzialità lasciavano sperare.
«Ti chiamerà perché ha grossi problemi con il golf» – aggiunse il collega – «gioca con una squadra che sta vincendo un trofeo molto ambito… ci sono ancora alcune gare da disputare ma sembra non voglia più giocare… a guardarlo si ha la sensazione non voglia vincere, è bloccato, teso impaurito.. .» – concluse sconsolato il medico.
Mi telefonò poco dopo.
La voce calda, profonda, fissò un appuntamento con fare seduttivo tra il divertito e l’imbarazzato minimizzando tutto ciò che gli creava difficoltà e sofferenza (ansia, ulcere, vertigini) ed esaltando i successi sportivi accimulati,dandomi la sensazione fosse spinto più dal desiderio di farsi conoscere (o riconoscere) che dalla curiosità di conoscersi.
Lo ricevo ad ottobre: Francesco ha 26 anni, è alto quasi un metro e novanta, un fisico atletico, proporzionato. I lineamenti dei viso sono regolari anche se leggermente induriti da uno sguardo cupo, lontano. Lo vidi arrivare da poco lontano e mi colpì il suo procedere fiero (è quello che si dice un bel ragazzo…), la testa decisamente alta, il passo ritmato e un’altra volta ebbi la sen sazione mettesse in evidenza il lato migliore, la parte da ammirare.
Arriva in ritardo, sorridente e sicuro di sé, mi tende la mano, cerca un contatto «per fortuna siamo al piano terra perché soffro di vertigini» dice mentre varca la porta, ignorando e passando oltre la mia persona con lo sguardo, osservando la finestra alle mie spalle.
Si guarda attorno, osserva il locale, ma evita il mio sguardo, guarda il lettino, poi, sorridendo, sceglie la sedia di fronte alla scrivania, giocherella con alcuni libri poi alza lo sguardo verso di me, si calma, respira profondamente e con un «eccomi qua» scioglie tutta la tensione in un ampio sorriso tanto dolce e collaborante quanto rassegnato.
Ho la sensazione di trovarmi di fronte a due persone: una «al di sopra» elevata, che si porta avanti con fierezza, che si fa vedere, ma non vede, che c’è, ma non incontra, attento alle vie di fuga (finestra) e agli aspetti esterni (locale) più che alle proprie fragilità (vertigini) o alla relazione (non mi guarda). Questa parte difesa e controllata lascia improvvisamente spazio ad un sé dipendente e rassegnato — «non so cosa devo dirle» — sbotta, lievemente indispettito dal mio silenzio, evidenziando un bisogno di «essere come» mi aspetto sia, bisogno di rientrare nel modello dell’immaginario «paziente perfetto», oscillando tra un atteggiamento provocatorio ed uno di totale dipendenza relazionale.
«Questo studio mi deprime.., non amo gli spazi chiusi… mi sento soffocare… potremmo fare terapia all’aperto!» -. Sorride, sta giocando, ho la sensazione ci sia un limite tra noi due: un parapetto troppo alto che non può essere superato, si allontana. Un’altra volta Francesco davanti alla profondità dei suo sentire (mi deprime) si è sentito male (mi sento soffocare), ed è stato costretto ad utilizzare una battuta (potremmo fare terapia all’aperto) per «uscire» dalla relazione, per tenersi fuori da ogni coinvolgimento.
Mi parla a lungo dei suoi problemi nel golf: dei peso degli sguardi alla partenza «vorrei essere invisibile»; del panico che gli blocca e indurisce le braccia quando deve colpire la palla, il terrore di sbagliare, la paura che gli altri possano ridere di lui e quei terribili paletti bianchi che segnano, in campo, il fuori limite: una zona da evitare, una zona che, se raggiunta dalla pallina, penalizza di un colpo il giocatore.
«Quel paletto bianco mi paralizza, so che devo evitarlo, ma regolarmente, non so come, prendo quella direzione, tiro e perdo un colpo». Lo sguardo disiliteressato, il volto immobile parla lento, controllato e rassegnatò quasi volesse prendere le distanze tra sé e me, come se l’unica reale barriera invalicabile, il primo paletto bianco l’avesse posto tra il detto e il sentito, tra sé e il mondo ed avesse creato dentro di sé una zona invalicabile, una zona nella sua vita a 18 buche da evitare.
Si comporta in terapia corne lungo un percorso da goif: studia e controlla la relazione sempre pronto a tirare un colpo perfetto capace di volare su ogni ostacolo terapeutico, su ogni interpretazione, portandomi alternativamente, quel doppio sé: una parte sofferente e bisognosa, impotente e frustrata, interna e profonda che tenta di evitare e rifiuta cornpensandola in una parte esaltata, idealizzata, in una maschera da mostrare e far ammirare. Per alcuni mesi, nella nostra relazione terapeutica, il paletto bianco, il limite che non si deve superare per non incontrare la sconfitta, era segnato dalla scrivania e per lungo tempo la terapia si è sviluppata in incontri «vis-à-vis» durante i quali Francesco ha avuto modo di descriversi e presentarsi per quell’unica parte di sé che si permetteva.
«Non ho mai pianto» ripeteva con orgoglio «e della mia infanzia ricordo poco».
Single per scelta, per mesi mi ha raccontato di quanto le donne «lo corteggiassero», delle innumerevoli storie «poco importanti e poco coinvolgenti» nelle quali si sentiva costretto a dare: «le donne vogliono solo sesso», …sorvolando sul vuoto affettivo che questo suo vivere gli procurava, accennando solo qua e là all’inesistente rapporto col padre (uomo di successo, disinteressato sia alla moglie che al figlio) dal quale non si è mai sentito riconosciuto, la cui unica forma di contatto tra i due è l’assegno che il padre gli versa.
Anche l’arrivare spesso in ritardo ai nostri incontri, spostare le sedute, evitare il lettino, sono stati per lungo tempo tentativi di controllo e verifica di quanto fossi analista-donna-madre verso la quale si sentiva in dovere di dare, ma dalla quale bisognava difendersi con la fuga, o padre assente al quale farsi riconoscere, interessato solo ai successi, contento e pago di quell’assegno (pagamento delle sedute) che risolveva in sé l’incontro stesso.
Dalla madre Francesco era fuggito due anni prima, quando aveva deciso di vivere da solo, stanco ad accogliere e asciugare quei pianti di donna tradita, soffocato da quelle lacrime che lo rendevano frustrato e impotente.
Quei «fuori limite», quella parte di sé, segnata da ferite, incidenti e cicatrici che attentamente fino ad ora era riuscito ad evitare, ma che da dentro (forti mal di stomaco, vertigini…) minacciavano quella apparente regolarità di gioco e di vita, li ritroviamo in due immagini dei nostro percorso (quando, dopo più di 3 mesi, mi propose il lettino…).
«Sono in un prato di montagna… adoro la montagna, è bella… maestosa… sto camminando in un prato verde… cammino e mi accorgo di essere in una palude… più avanzo più l’acqua si fa melmosa e faccio fatica a camminare… non me ne ero accorto… ho una sensazione sgradevole… sembrano quasi sabbie mobili: mi fermo. Guardo la montagna davanti a me. . . è alta, imponente, rocciosa, la vetta è un ghiacciaio assolutamente irraggiungibile: la parete è quasi dritta, impraticabile… dalla roccia si staccano dei sassi… rischio anche di essere colpito… ho freddo» …poi prendendo le distanze: «Cosa ci faccio in un posto cosi? Non mi sarei mai messo in quella situazione!». L’avevo lanciato in «fuori limite», ed erano scattati «l’evitamento» e la razionalizzazione come meccanismi di difesa.
Invischiato simbioticamente ad un materno soffocante preferisce fermarsi a guardare, risolvere con la fuga razionale (cosa ci faccio qui) piuttosto che confrontarsi con la durezza che si porta dentro, con un padre tanto assente quanto idealizzato, imponente, minaccioso (sassi…) con quel ghiacciaio affettivo bello da vedere (mi piace la montagna) doloroso e freddo da raggiungere.
Davanti a quelle nevi perenni (ghiaccio) bianche ed irraggiungibili, Francesco è stato chiamato a scegliere, come un neonato al momento del parto: o rischiare la nascita, il vuoto, corifrontarsi con i propri limiti, raggiungere il freddo dell’autonomia, superare il limite dei corpo materno o rimanerci dentro, rimanere in un rapporto uterino e simbiotico che seppure bello e indispensabile (prato verde) durante la gestazione, diventa soffocante, e mortale (paludi… sabbie mobili) se non si attiva la nascita.
Si è fermato di fronte alla competizione e alla sfida della vita, come nella vita e negli sport si è fermato davanti alla possibilità di essere lui stesso la montagna imponente, davanti alla possibilità di essere vincente.
Il fuori, la nascita, la competizione lo spaventano e lo attraggono; tanto che, nel tentativo dì evitarli, è spesso costretto a fermarsi e a «perdere colpi» nella crescita e nell’autonomia così corne durante le gare. La paura di non farcela, il timore del paletto bianco, non gli permettono dì puntare sul (suo) lato vincente ed inconsciamente il tiro sbagliato è li a comunicare il desiderio di fermarsi, la propria impotenza e l’impossibilità dei confronto, la rinuncia.
E così come nella vita gli rimangono i dolori allo stomaco a segnalare emozioni interne scaricate, ma non elaborate o le cicatrici sulla pelle a ricordare incidenti hen più gravi e profondi, così nelle competizioni sportive gli resta la sconfitta o la frustrazione dei colpi sbagliati a ricordargli il desiderio inconscio di fermarsi.
«Sono nella giungla… è verde… grande… sterminata… vedo Tarzan che mi raggiunge saltando da una liana all’altra… mi prende… volo con lui da un albero all’altro… non posso guardare giù, ho paura di cadere. . mi lascio portare fuori da lui…» – intervengo e dico – «attento sei scivolato, non è riuscito a tenerti… stai cadendo… stai a vedere cosa succede»…
Francesco sul lettino ha un moto di disappunto, la mascella si irrigidisce… il volto si tira in un’espressione di rabbia e la delusione, la rassegnazione prende il sopravvento: «sto cadendo» — sussurra piano — la voce rotta dalla paura «sotto di me vedo un laghetto di coccodrilli… che brutta morte… cado… mi manca il respiro, l’acqua è gelata… ma non è profonda… riesco a toccare… mi muovo piano verso la riva… vedo i dorsi verdi degli animali… sono tanti… immobili… sembra che non mi abbiano visto, ma io so che mi stanno guardando… sono terrorizzato, mi divoreranno… uno si rnùove lento verso di me… vedo i suoi occhi emergere dall’acqua… la riva è vicina… accelero… vedo le fauci aprirsi e la doppia fila di denti bianchi… mi sento stringere la gamba destra ll’altezza dei ginocchio, l’animale si rotola su se stesso e mi trascina sott’acqua… avverto solo un grande dolore… non voglio morire… cerco nelle tasche e trovo un coltello, vengo preso dalla forza della disperazione e inizio a colpirlo, con rabbia, con cattiveria… ovunque, mi stupisco della mia aggressività… c’è sangue ovunque, sono ancora sott’acqua… non respiro ma il dolore diminuisce… non sono più tra i suoi denti… non è morto, ma mi ha lasciato… arranco… raggiungo la sponda… sono salvo… dolorante e sanguinante, ma salvo… respiro profondamente e mi guardo attorno… il paesaggio è cambiato . .. dall’alto era diverso … Sono su un prato verde… davanti a me, in lontananza, un piccolo villaggio… la giungla è alle mie spalle. . . vedo Tarzan venirmi incontro… appena si avvicina mi accorgo che non è Tarzan, ma è bionda come lui. . . è una donna che si prende cura di me… sono felice»… si interrompe e in silenzio si scioglie in un lungo pianto.
E’ caduto, ha affrontato ciò che non poteva vedere saltando da un ramo all’altro abbracciato a un super-uomo (Tarzan) in grado di dominare il mondo animale (o la parte animale/pulsionale del mondo. emozioni e sentimenti) ma separato dal vivere civile.
Ha lasciato quel super-uomo divenuto tale solo per compensare il lutto, l’abbandono di due genitori quando ancora il bisogno di nutrimento e di cure era forte, ma doveva lasciare il posto ad un «dover essere» autonomo ed indipendente.
Come per Tarzan, saltare da una liana all’altra gli ha permesso di controllare i pericoli e di salvarsi la vita, così per Francesco saltare fuori dal problema o dalla relazione, non lasciarsi coinvolgere affettivamente, controllare dall’altro l’hanno protetto e gli hanno evitato il confronto col vuoto affettivo, con il dolore, con quella parte di sé rifiutata, abbandonata.
Spaventato per quel pianto che non è riuscito a controllare, per un’emotività esplosa così all’improvviso ed impaurito nell’incontrare un sé fragile ebisognoso (felice di lasciarsi curare) si abbandono con sempre maggiore fiducia ed entusiasmo alla terapia iniziando un cammino di ricupero interno profondo.
Tornammo per mesi a riaffrontare quell’acqua gelata e le sabbie mobili di quell’infanzia di cui diceva di non ricordare nulla: di quell’infanzia «fuori limite» nella quale non si poteva tirare la palla. I ricordi riemergono chiari e dolorosi come resti coperti e sepolti da anni: rivive li freddo affettivo di una madre distratta da un matrimonio fallito e dal dolore, mai superato, di un figlio abortito prima della sua nascita.
Rivive il peso di quelle sofferenze, la colpa di avere una vita compensatoria, una vita cercata e accesa ad illuminare un vuoto e un lutto mai elaborato. «Cosa devo dire, come devo essere» per non deludere, per assolvere a tutte quelle aspettative, a tutto ciò che quel fratello non ha potuto essere.
Francesco riattraversa l’ansia di dare, il dover dimostrare prima che il bisogno di avere, tanto che ha imparato a non esprimere le proprie emozioni e a soffocare ogni impulso e desiderio in quel mal di stomaco di cui ha sempre sofferto.
Ricorda quel padre predatore della sua infanzia: ricorda la violenza di quell’uomo concentrato nei propri successi lavorativi e affettivi (grande conquistatore) con il quale, per non soffrire, ci si doveva muovere come in un lago di coccodrilli.
Era stato figlio e marito, ma fino ad ora vissuto con la paura di essere sbranato e con la rabbia di trovarsi in una situazione senza scampo.
Davanti alla montagna si bloccò e temette l’imponenza e la forza dei padre, nei lago dovette accettare il confronto e la lotta, dovette accettare la propria aggressività (trovo un coltello) e permettersi di esistere (non posso morire) accettando la sfida, lo scontro con quel maschio interno che tanto più è idealizzato tanto più ostacola il divenire uomo.
«Nessun uomo può essere tale finché il proprio padre non sia morto» (Charmet).
Francesco ha continuato la terapia con impegno e regolarità.
Nella vita, nelle relazioni e nell’attività sportiva si susseguivano cambiamenti e successi. La tensione prima della gara, il nervosismo che lo irrigidivano e che gii procuravano dolori di stomaco, hanno lasciato il posto alla concentrazione e ai desiderio di mettersi alla prova, fiducioso delle proprie capacità. Non ha più paura del vuoto, superate le vertigini ha iniziato ad arrampicarsi sfidando la montagna e le sue altezze e ricuperando un senso di Iibertà mai provato prima.
La terapia è durata circa tre anni: oggi Francesco ha trent’anni, lavora con un amico in una agenzia di pubblicità, ha ricuperato il rapporto con i genitori (sempre sull’orlo della separazione) , convive con una ragazza.
E sempre coinvolto in competizioni sportive, dalle quali ricava successi e gratificazioni, ma è sempre rimasto a livelli amatoriali per non perderel’aspetto ludico che divertimento che lo sport può regalare.
Anche fisicamente è molto cambiato: è un giovalle uomo solare che non sente più la necessità di elevarsi sugli altri per farsi ammirare, ma preferisce accogliere, confrontarsi in uno scambio relazionale ch affetto e stima. L’arroganza dei primi incontri, il bisogno cli sentirsi superiore, l’atteggiamento provocatorio, i paletti che piantava per allontanare e per allontanarmi, difendevano un bisogno di amore, la paura di essere rifiutati, di non essere riconosciuti di essere sbranati.
Ho sollecitato la conclusione della terapia quando mi resi conto che il villaggio trovato fuori dalla giungla e la giovane donna stavano diventando la sua casa e non un momento di ricupero e di passaggio verso un mondo suo ancora inesplorato.
All’ultima seduta è arrivato con molto anticipo: mi porta una stella alpina (che ancora conservo) dicendomi «anche la montagna più minacciosa può conservare fiori comeoquesto: grazie!».
L’intensità dello sguardo, la dolcezza di quel sorriso vivono in me oggi come allora; sulla porta mi abbracciò forte; sapevo che non I’avrei piu rivisto; ero felice, commossa, ma provavo un profondo dolore; forse in quel momento mi sentii come una madre quando si separa da un figlio tanto amato; o forse qualcosa di diverso, ma a questo punto il paletto bianco dei «fuori limite» l’ho messo io.
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